testata (theda)

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domenica 30 ottobre 2011

this is england

This is England – Shane Meadows – GB 2006
Descrizione della periferia inglese degli anni '80 dove adolescenti disadattati si amalgamano con adulti disadattati prodotti della politica Thatcher.
Si riesce a rivivere quello che si respirava, e si respira, in una Europa impoverita sia moralmente che economicamente, dove la paura del diverso, sposata dall'estrema destra, fa breccia nei sentimenti nazionalistici di poveri ignoranti.
La storia è una delle tante storie di band giovanili (skinhead) dove c'è un leader che prende sotto la sua ala protettrice il ragazzino difficile ed orfano di padre, morto in guerra nelle Falkland.
Brutti, sporchi e cattivi, ma solo in apparenza, perchè obbligati a rispettare un clichè ormai cucitisi addosso. Emergono in tutti i personaggi i lati estremi di crudeltà ed in contrapposizione quelli di bontà.
Quando il ruolo del cattivo comincerà a prendere il sopravvento fino a sfiorare la morte di uno dei personaggi la redenzione l'avrà vinta.
Ognuno, da quando nasce, prende a riferimento dei maestri di vita, ma non sempre sono quelli giusti. Sta a noi aprire gli occhi e decidere quello che è giusto senza intromissioni altrui.
>Lula<

domenica 9 ottobre 2011

venere nera

Venus noire – Abdel Kechiche – Francia 2010
Con il suo solito impegno nel raccontare le storie di incomunicabilità tra tradizioni e culture eterogenee come quelle africane ed europee, l’autore rimane fedele al proprio stile di narratore.
In questo caso non indaga nella contemporaneità, nel difficile rapporto tra immigrati, di prima seconda o terza generazione, e coloro che si definiscono cittadini autoctoni, bensì analizza e racconta una vicenda realmente accaduta all’inizio del XIX secolo dove una donna di origine sudafricana lascia la sua terra per seguire il “padrone” afrikaner in Inghilterra. La donna di etnia Khoi per le sue caratteristiche fisiche si trasformerà in un “fenomeno da baraccone” nei teatri di terz’ordine, prima londinesi poi parigini.
La libertà e l’uguaglianza non esistono, men che meno per una donna africana in Europa dove l’illusione di riscatto si trasforma in privazione della propria personalità. La libertà e l’uguaglianza non esistono se entrano in gioco interessi particolari non necessariamente economici, ma anche ambizioni personali, arroganza e vanità. La libertà e l’uguaglianza non potevano esistere due secoli fa e non possono esistere ora, la vicenda della venere nera (Saartjie Baartman) diviene una tragica metafora contemporanea, capace di includere bianchi e neri, poveri, ignoranti, malati, “spiriti liberi”, diversi.
Kechiche ricostruisce la storia, partendo dalla fine, dal momento in cui un anatomista davanti ad uno stuolo di accademici spiega le caratteristiche degli ottentotti utilizzando il calco, disegni e i genitali amputati a Saartjie dopo la sua morte, quindi inizia il racconto mantenendo una trama lineare riuscendo a descrivere i personaggi che di volta in volta incontreranno la protagonista senza facile retorica e didascalismo. Malgrado il “campo sia minato”, non indugia oltre il necessario nel voyeurismo, benché talvolta sembra voglia incoraggiare una sorta di perversione psicologica nello spettatore. Purtroppo la lunghezza eccessiva del film, un’insistita ripetitività delle situazioni e l’uso logorroico delle parole nei dialoghi fanno svanire l’interesse della visione (pratica già sperimentata in Cous Cous).
Notevole la prova dell’attrice (Yahima Torrès) capace di trasmettere con freddezza i sentimenti del personaggio restituendo la verità e la complessità della vita e mantenendo una distanza sostanziale con lo spettatore che non riesce a parteggiare per lei.

sabato 1 ottobre 2011

lo spavaldo

Little Fauss and Big Halsy - USA 1970 - Sidney J. Furie

Robert Redford... Halsy Knox
Michael J. Pollard...
Little Fauss - Cucciolo - "Tappo"
Lauren Hutton... Rita Nebraska
Noah Beery jr... Seally Fauss
Lucille Benson... mamma Fauss

Nelle polverose piste in terra battuta dell’Arizona si svolgono impegnative competizioni motociclistiche di regolarità (come si diceva un tempo) e attorno ad esse, di volta in volta, si crea un microcosmo fatto di personaggi eccentrici e caratteristici. Tra questi ci sono i due protagonisti del film, Halsy Knox (Robert Redford) lo spavaldo, cinico pilota per caso, il quale grazie alla sua dialettica spregiudicata fatta di menzogne e a miseri premi-gara tira-a-campare; l’altro, è “piccolo Fauss” ovvero Cucciolo (Michael J. Pollard), ingenuo e semplice meccanico della provincia agricola americana più profonda con un’innata passione per i motori e le moto – mentre Halsy divide il letto con le donne, Cucciolo lo divide con la motocicletta.
Dopo un incidente provocato da Halsy, Cucciolo si frattura una gamba. Questo infortunio pregiudica la regolare partecipazione al campionato ma Halsy, che nel frattempo aveva subito una lunga squalifica, gli propone una soluzione ambigua ma allettante: uno scambio di persona. Con la licenza e la moto di Cucciolo correrà Halsy cosicché il primo otterrà punti per poter fare il salto nei professionisti e coronare il suo sogno. Tutto fila (quasi) liscio fino a quando nel loro pellegrinare tra una corsa e l’altra non piomberà una donna, bella e “libera”, tale Rita Nebraska (Lauren Hutton). Cucciolo si innamora di Rita che ovviamente gli preferisce l’amico, questa cosa comporterà una inevitabile rottura del sodalizio tra i due uomini.
Le strade si separano, Halsy senza il geniale meccanico non ha più una moto competitiva inoltre la sua relazione con Rita, nel frattempo rimasta incinta, si complica, mentre Cucciolo, tornato nella sua protettiva e ruspante famiglia, ha trovato le chiavi giuste per fare il salto nel motociclismo che conta: i Gran Premi in circuito.
Rita lascerà Halsy portandosi via la bimba appena nata e Cucciolo, in procinto di partire per il Vietnam, avrà un’ultima occasione per “vendicarsi” de “l’amico/nemico” proprio in un Gran Premio. 



Il motorismo, in questo caso,  con una sua accezione specifica crea, in forma di Genere cinematografico, uno spazio caratteristico: la motocicletta e il suo contesto.
Nel mondo delle corse la competitività, la vanagloria e il cinismo sono ingredienti necessari. Lo spavaldo racconta questo, un “circo” formato da dilettanti allo sbaraglio pronti a tutto per emergere e dove la moto può essere il mezzo per raggiungere lo scopo ma anche, come dice il protagonista “negativo” del film, un giocattolo molto pericoloso. Il cavaliere impavido si immagina come icona mitica tra realtà è leggenda e questi, sinceri o cialtroni personaggi, ne incarnano romanticamente il ruolo. Un ruolo che, in altro modo, si può analizzare come un più banale ma realistico, per quanto inconscio, prolungamento fallico: una sorta di filo rosso che collegherà il binomio uomo-macchina sia in questo e sia in altri film col medesimo soggetto.
“A che serve la verità?” è un’altra battuta di Halsy sulla quale si sviluppa gran parte della storia. La menzogna è uno strumento utile all’uomo (oppure all’intera umanità) incapace di accettare un ruolo, nel peggiore dei casi, predestinato.
Le vicende raccontate nel film sono realistiche e la finzione traduce con onestà semi-documentaristica la vitalità di un mondo rinchiuso nel suo perimetro. Non luogo abitato da, più o meno allegre famigliole organizzate (tra le loro mani si alternano forchettoni per barbecue e chiavi dinamometriche), sognatori boriosi, geniali e intraprendenti truffatori, schizofrenici temerari, talenti innati e puttane. Soldi e miseria. I tempi cambiano, le abitudini si trasformano e si adeguano ad essi, ma il minimo comun denominatore rimane immutato.
In quanto Genere, non si può sottovalutare senza rimorso il valore di un film come questo ponendosi su degli schemi basici, la sua qualità va cercata nello specifico del soggetto,  pertanto richiede una certa preparazione “culturale” o, magari, una più semplice immedesimazione nel malinconico sguardo del giovane Fauss (quanto mai azzeccata la trasposizione nell’edizione italiana in Cucciolo, con quel “muso” ricorda meravigliosamente il personaggio dei Sette nani) capace di trasmettere sentimenti che abbracciano sia una disperata rassegnazione sia un’ingenua caparbietà.  
Coinvolgente e congeniale la colonna sonora impostata sulle canzoni di Johnny Cash.

______________________________________________________________le moto

Yamaha DT-1 mx (250):
Prima vera e propria moto creata appositamente per il fuoristrada, il motore era un monocilindrico a 2 tempi di 246 cc, con valvola di aspirazione lamellare, raffreddato ad aria che sviluppava una potenza massima prossima ai 19 CV a 6.000 giri (in seguito raggiunse i 25 CV a 7.000 giri), il cambio era 5 marce.
I cerchi erano in alluminio di grosso diametro, 21 x 3 pollici all’anteriore e 18 x 4 pollici al posterore.
I freni a tamburo.
Il suo peso era di circa 120 Kg.
La moto rimase sul mercato fino al 1982.  

Sulla griglia di partenza di una gara si intravede, tra le altre, una Triumph.







I sidecar non erano prodotti da case motociclistiche ma il frutto della fantasia e genio di artigiani i quali gli adattavano vari tipi di motori sia motociclistici sia automobilistici (prevalentemente BMW bicilindrici ma anche motori MV Agusta col cardano).

Yamaha TD2 (250):
Fu la migliore moto per corridori privati alla fine degli anni ‘60 inizio ’70, bicilindrica a 2 tempi raffreddata ad aria con cambio a cinque marce. Gli veniva accreditata una potenza massima di 44 CV a 10.000 giri. Telaio in tubi d’acciaio a doppia culla, le sospensioni e le sovrastrutture erano uguali a quelli delle moto ufficiali (RD 56) di qualche anno precedente. I freni erano enormi tamburi a ganasce. Il peso era di (“solo”) 115 Kg. Da questo progetto furono derivate anche le 125 e 350 cc da competizione.

domenica 18 settembre 2011

from tokyo

Iz Tokio – Aleksej German jr. – Russia 2011
Cosa accomuna una hostess, un uomo di successo russo ed ex soccorritore ed un anziano giapponese superstite dello tsunami, tutti riuniti in un aereo di linea semi deserto di ritorno dal Giappone? I ricordi: il ricordo della perdita di un amore giovanile (la hostess), la perdita dell’amata moglie (l’uomo), la perdita di tutti i familiari nel disastro naturale (il vecchio). Ognuno di loro tornerà al quotidiano lasciando i propri fantasmi bloccati allo scalo della vita.
> Lula <

i guardiani del destino


The Adjustment Bureau – George Nolfi - USA 2010
L’antica leggenda talmudica dei “trentasei uomini giusti” racconta di come questi abbiano permesso al genere umano di sopravvivere: senza la loro esistenza l’umanità si sarebbe estinta in un sol giorno soffocata dai propri errori.
Non sappiamo quanto questo mito abbia ispirato Philip Dick, autore del racconto da cui Nolfi ha tratto questo “piccolo” film, eppure la prima cosa che mi è balzata alla mente vedendo I Guardiani del Destino è stata proprio la sopra citata leggenda che prosegue più o meno così: questi famigerati uomini non sono distinti da nessun rango né carica, non si possono riconoscere e probabilmente  neanche loro ne sono consapevoli. Nel film, invece, è chiara la presenza di una struttura bene organizzata, collaudata e capace di stravolgere gli eventi seguendo regole precise.
Il nostro protagonista David Norris (un Matt Damon a rischio di sovraesposizione) è destinato a diventare un politico di successo ma qualche cosa va storta, i suoi “guardiani”, oltre ad alcuni errori commessi, si trovano a dover contrastare la storia d’amore che sboccia con una misteriosa donna interpretata da Emily Blunt, attrice, in questo caso, assolutamente priva di appeal. David rasenta troppo spesso l’idiozia e di ciò se ne approfitta, crede nel colpo di fulmine e farà di tutto per complicare le cose ai suoi fin troppo pazienti e benevoli guardiani. Purtroppo si capisce come andrà a finire.
Ciò che manca a questo prodotto è forse la presenza di trentasei uomini giusti. La televisione ha invaso in modo irreversibile il cinema (che pena provocano coloro che confidano in questo linguaggio).
L’America è prossima al collasso, urge fantasia per salvarla. 

domenica 28 agosto 2011

fahrenheit 9/11

Si è gia detto molto, quasi tutto, su questo film. L'uscita nelle sale rappresentava ormai un semplice fatto tecnico. Che Moore sappia descrivere con ironia anche le circostanze più spregevoli era già dimostrato, e ancora una volta ha centrato il segno. Che, ahinoi, le sorti di questo mondo sia un disegno più o meno tracciato nelle tasche e nel cervello di un manipolo di arroganti e stolti faccendieri (non necessariamente anglofoni) è appurato. Che il protagonista non è altro che una immaginetta da impegnare (e all'occorrenza bruciare) per i media spero sia chiaro. Azzarderei anche, che i regimi perseguono sempre e comunque l'interesse di chi li guida. Quindi, questo documentario non ci racconta niente che già non sappiamo e, accende sì la miccia, smuove i sentimenti e il senso critico, ma per spegnersi non appena si varcano le soglie della sala cinematografica. Le bugie, i sotterfugi, i complotti rientreranno in quel recinto di retorica e politica facilona. Le lingue sciolte dei "soliti teorici" riprodurranno il consueto, rassicurante "tifo sportivo" del noi contro voi. In sostanza, opera utile e propedeutica ma costruita con metodo più consono alla "parte" che si vuole colpire, tanto da far venire alcuni dubbi: un americano è sufficientemente "puro" per screditare un americano?

gangs of New York


Film importante, questo Gangs of New York. Molto probabilmente si disputerà il podio per il miglior film dell'anno in corso. Non privo, comunque, di cadute di stile. L'impatto visivo è forte, pieno di spettacolari rappresentazioni che spesso si traducono in immagini, forse, più metaforiche che logiche. Impressionante il paradosso prodotto nella "Casa di Dio" più vicina all'Inferno dantesco che ad uno sperato paradiso, il quale sembra meglio rappresentato da un ideale campo di battaglia. Personaggi bellissimi, affascinanti per come sono immersi nel sudiciume vero e intellettuale, cosi sudati, sporchi e sanguinolenti più vicini a delle bestie in gabbia che non ad esseri superiori guidati da un ideale di giustizia, libertà e democrazia. Già, bestie in gabbia, schiavi della loro stessa natura, l'evoluzione. Come un unico grande e vero senso della vita l'evoluzione riesce, di volta in volta, a crearsi i modelli da seguire. Pare che l'uomo sia degno solo di ciò che il proprio istinto sappia produrre, dei modelli appunto. L'America stessa è ormai un modello accettato ed assoluto. Ma il presunto antiamericanismo non ha importanza, come non ne ha la presunta anticlericalità. Sembra quasi che oggigiorno si voglia ridurre ogni messaggio impegnativo a queste banalità. I messaggi sono tanti e si percepiscono agevolmente, spesso tutt'altro che ottimistici. Anche se certe situazioni come ad esempio la sfida tra pompieri, probabilmente, sottintende una conoscenza raffinata della storia americana. Da brivido la scena dei soldati che sparano sui cittadini rivoltosi, o dello stesso popolo, praticamente inerte, sotto le bombe dei cannoni (i padri che ripudiano i figli?). Per non parlare della farsa delle elezioni, così come dell'idea acerba (ma neanche tanto) della democrazia e dei suoi valori non sempre rispettabili e spesso dogmatici. E quel sottolineare sempre al patetico orgoglio patriottico: - Muoio da vero americano -; quando si capisce bene che non ci sono eroi ma, in fondo, tutti sono sufficientemente criminali e crudeli per essere vincitori. Per quanto riguarda le cadute di stile, non ho apprezzato il personaggio femminile, o meglio quel tipo di personaggio femminile. Appare come un riempitivo che poco ha a che fare con la storia. E quel petto tornito del virgulto irlandese pare improbabile e decisamente fuori luogo (chi non lo ha notato?). Hanno da trovate un po' ruffiane, per il grande pubblico.

million dollar baby


Capace di penetrare ferocemente nell'animo. Forse, in alcune occasioni, è necessario socchiudere gli occhi per evitare di afferrare quegli appigli che sembrano collocati di tanto in tanto come sorta di antidoto, vie di fuga per non farsi massacrare: i molti temi trattati hanno un onesto sviluppo e quando la boxe o la sua rappresentazione, la suburra o i suoi luoghi comuni, la religiosità che non offre spesso risposte illuminate e le vicissitudini quotidiane sembrano dettare il filo conduttore, si è liberi di divagare. Chi decide di accettare e seguire lo scavo più profondo non ha speranza. Probabilmente una cicatrice rimarrà per sempre e ogni qualvolta si presenterà l'occasione sarà pronta per riaprirsi e mostrarci quell'essenza, a volte insopportabile, della vita. Vorrei poter sconsigliarne la visione a chi ha occhi molto grandi, sagaci, ma sarebbe una violenza ancora maggiore.

she, a chinese

Mei, giovane ragazza cinese, è ossessionata dalle sue condizioni di vita semplici e rozze. La campagna dove è cresciuta gli impone prove dure e disumane che la sua personalità fatica ad accettare, sogna una vita diversa magari in città o addirittura in Occidente. Un lungo viaggio, anche interiore, una fuga verso l’ignoto con caparbia volontà e con la speranza di realizzare i propri sogni.
Il film, vagamente autobiografico (la regista per certi versi ha percorso gli stessi passi) possiede la capacità di restituire, nella prima parte, un’immagine della Cina sia rurale che urbana autenticamente cruda, sporca, miserabile e violenta, dove muoversi agevolmente diventa una sfida costante per riuscire a mantenere una propria dignità. Uno sguardo che rasenta la perversione quasi morbosa tipica di coloro che dal “primo mondo” osservano la lotta per la sopravvivenza dei mondi altri. La seconda parte si svolge nel civilissimo Occidente, nella Londra multietnica, dove il film perde, dal punto di vista visivo, fascino ma non interesse per come indaga le differenti culture che di volta in volta Mei, la protagonista, dovrà affrontare (la stessa cultura cinese in una comunità di emigrati dove ritroverà ciò da cui era scappata, quella opportunista occidentale, quella mussulmana). In fondo i due mondi, oriente ed occidente, non sono troppo diversi.
Ci si trova di fronte ad una disperata ricerca della via per “tirare avanti – tirare a campare”, dove i sogni e le speranze rimangono sostanzialmente stampate solo nelle riviste ed i sogni impressi su poster che vivacizzano squallide pareti di stanzette disadorne. Dove possedere “cose” ha poca importanza poiché prima o poi si dovrà morire e dove l’importante sembra essere solo riempire la pancia… in tutti i sensi.

il caimano


Moretti ci ha dimostrato come e perché Berlusconi è comunista. W il comunismo. W Berlusconi.
Buona prova di decriptazione di uno status quo ormai metabolizzato. Con un buon gioco di metafore e fatti reali Moretti imbastisce uno scavo nell’inconscio italico (e non solo) avvezzo al qualunquismo e permeabile a sogni e fantasie metafisiche, incapace di indignarsi per lo stravolgimento del vocabolario ma non verso l’indottrinamento massificato e omologante. Bel manifesto, icona del “capo” dove Berlusconi ne esce assolutamente vincitore ciononostante urlo di sinistra a un popolo di sinistra ingabbiato nel berlusconismo.

V per vendetta

V per vendetta
Il richiamo ad Orwell nel film è forte e quando sono queste le tematiche non ci si può sottrarre dalla fascinazione.
”L’eroe rivoluzionario” frutto stesso del potere, baco incontrollabile della fatalità e dell’indecifrabile casualità delle cose, aspira al potere.
Nel nostro esempio il sig. V, non a caso, tiene per ultimo il palazzo del governo prima mina le fondamenta dei poteri laterali. Pilastri del potere centrale. Tra questi il palazzo-ministero della televisione-informazione. La vera “mente”, il sistema nervoso della gestione politica risiede nella propaganda, nella VERITÀ. Il sangue e la linfa viaggiano attraverso i cavi e le onde radio, insinuandosi nel DNA, nel nucleo logico del pensiero di ogni singolo umano deputato a divenire tassello strutturale che permette al sistema di reggersi in piedi e anzi autoalimentarsi. Così i diversi tutti saranno nemici, cancri, mine: checche, malati o spietati terroristi.
Ciononostante la fine di un ciclo è inevitabile, qui l’indefinibile V prenderà le sembianze fittizie di un eroe qualunque nel quale la massa, il popolo si identifica. Soppianterà il vecchio per instaurare il nuovo non necessariamente uguale nella forma e nel metodo ma a sua volta destinato a diventare, per quanto sfaccettato, monolitico potere. Riuscirà nell’intento, ma sappiamo che malgrado le buone intenzioni NOI non saremo mai liberi.

inland empire

Il cinema è morto (qualcuno l'ha detto). Il cinema sta rinascendo?
Opera ostica, incomprensibile non giudicabile. Prodotto disturbante ed eccezionale per certi versi originalissimo se non altro per l'audacia dell'autore che con pochi preamboli ci vuole trasferire in una dimensione personale, la sua, ma che concede (finalmente) la libertà di lasciarsi ipnotizzare da atmosfere intriganti ed eccitanti contrapposte ad altre deliranti e subdole. Avanziamo, con equilibrio precario, tra clamorosa presa in giro e capolavoro astratto di prim'ordine: dedicato a tutti coloro che non temono di perdere tre ore della propria vita.

un chien andalou

Raccontare il film è come ricostruire la "logica" irrazionale di un sogno, o di un incubo.
All'inizio, dopo la didascalia "Il était une fois...", un uomo affila un rasoio e, dopo aver visto in cielo una sottile nuvola passare davanti alla luna piena, taglia l'occhio di una donna.
Didascalia: "Huit ans après". Un uomo percorre in bicicletta le vie d'una città. Porta appesa al collo una scatola col coperchio a strette righe diagonali. Una donna che sta leggendo in casa propria ode qualcosa in strada, si affaccia alla finestra e vede l'uomo in bicicletta cadere proprio davanti alla sua porta. Scende e, riconosciutolo, lo bacia a lungo. Di nuovo in casa, la vediamo distendere su un letto gli oggetti personali dell'uomo, compresa una cravatta che ha tolto dalla scatola dell'uomo. Nella stessa stanza un uomo in piedi (lo stesso?) accanto ad una porta guarda la propria mano coperta di formiche con uno sguardo allucinato.
La stessa scatola di prima riappare, in mezzo alla strada sottostante, in mano a uno strano individuo (l'ermafrodito) che sta toccando con un bastone una mano mozzata al suolo. Viene circondato da una folla inferocita e allibita, tenuta a bada da un vigile che poi la raccoglie la mano e la consegna a quello strano tipo, che la richiude nella scatola, stringendosela al petto. Nella strada cominciano a passare delle auto ad una certa velocità e dalla finestra l'uomo delle formiche ha uno sguardo fanatico: sembra si auguri, pregustandolo, che la strana persona della mano mozzata venga investita: cosa che puntualmente accade.
Nella stanza l'uomo è preso da impulsi aggressivi e si avventa sulla ragazza toccandole il seno, prima con furia poi più dolcemente (sotto le sue mani, con un gioco di alterne sovrimpressioni il seno della donna è dapprima coperto dal vestito poi nudo). La donna si libera, fugge e preso dal muro un oggetto contundente, lo usa per difendersi. L'uomo, sempre preso da un'esaltazione notevole, comincia a trascinare a fatica un pianoforte, su cui è poggiato un bue squartato e al quale sono legati due giovani seminaristi. La donna fugge nell'altra stanza e chiude la porta, incastrando nella fessura la mano dell'uomo, di nuovo coperta di formiche, che cerca di inseguirla.
Nella stanza, il giovane uomo caduto dalla bici è disteso sul letto. Didascalia: "A trois heures du matin". Un uomo sale le scale e suona il campanello. Gli viene ad aprire proprio l'uomo della bicicletta. tra i due scoppia un alterco e il nuovo venuto getta dalla finestra alcuni oggetti appartenenti all'abbigliamento del giovane.
Didascalia: "Seize ans avant". il nuovo venuto prende un libro da un banco di scuola e lo porge all'altro, nelle cui mani il libro si trasforma in una pistola. Lo sguardo dell'uomo cambia, diviene feroce e uno sparo pone fine alla vita dell'intruso. La sua morte, tuttavia, si compie in un giardino pubblico, mentre alcuni passanti lo ignorano.
La donna nella stanza vede su un muro una farfalla notturna sul cui corpo spicca il disegno d'un teschio. L'uomo aggressivo si pone una mano davanti alla bocca e quando la toglie la sua bocca è scomparsa e poi al suo posto ci sono i peli scomparsi dalle ascelle di lei. La donna esce dalla stanza e si ritrova su una spiaggia dove incontra di nuovo il giovane della bicicletta. I due passeggiano serenamente. Al di sopra di loro campeggia, sotto forma di una sorta d'insegna al neon, la didascalia "Au printemps", mentre si sdraiano vestiti sulla sabbia e conversano amabilmente.



hitoshi matsumoto

È arrivato Matsumoto…
«Ottimooo!» Evviva Matsumoto.
Che il Giappone fosse un paese ricco di talenti è cosa risaputa eppure Hitoshi Matsumoto non figurava tra questi, praticamente sconosciuto in Italia (non in America dove ha avuto un certo riscontro di critica) ma grazie al festival di Locarno, il quale gli ha dedicato un programma speciale, potrebbe inserirsi, anche nel nostro paese, nell’elenco degli autori da seguire.
La sua attività ultradecennale in campo televisivo, spesso in coppia con Hamasa Masatoshi, ne ha fatto uno dei comici più popolari ed apprezzati in patria. Nel 2004 avviene la svolta verso il cinema, Matsumoto sedotto da sempre dalla Settima arte, comincia a dedicarsi ai film realizzando, fino ad ora, tre lungometraggi: Dai Nipponjin (Big Man Japan – 2007), Shinboru (Symbol – 2009), Saya Zamurai (Scabbard Samurai – 2011); sono film molto diversi tra loro ma accomunati da una straordinaria venatura ironica, mai banale (a volte addirittura astrusa), molto ricca e fresca, sempre estremamente godibile (poi quando, come nei primi due film, è anche il protagonista, la sua fisicità stralunata crea un impatto ancor più coinvolgente e trascinante).
Il cinema contemporaneo giapponese ha espresso un nuovo “genio”: da seguire assolutamente.
«Matsumoto-san… Ottimooo! Ottimooo!»


Locarno, 2011

aleksei fedorchenko

Pesaro - 2010 

hana makhmalbaf


Venezia - 2009 


domenica 21 agosto 2011

the loneliest planet



The Loneliest Planet - Julia Loktev - USA/germania 2011
Siamo in Georgia (Caucaso), una coppia di fidanzati americani (lui ispanico) prossimi al matrimonio affrontano un viaggio in queste terre selvagge seguendo i dettami del turismo “dal basso” ovvero zaino in spalla e scarpe comode, incontri ravvicinati con i locali, con le loro usanze e i loro costumi per meglio sentirsi inseriti nell’ambiente circostante, in una ormai tipica illusione del “vero viaggiatore” contemporaneo e occidentale. Per non perdere emozioni e luoghi particolarmente interessanti, essi, si affidano ad una guida locale.
Tra paesaggi misteriosi e insidiosi, deserti, gole, montagne spoglie e fiumi i tre camminatori tirano avanti tra barzellette, aneddoti e scherzi dell’ambiguo accompagnatore georgiano il quale si prende gioco in più di una occasione dei due innamorati esploratori, inebriati dalla natura sempre più brulla e desolata. Piano piano, passo dopo passo si cominciano ad intravedere le differenze tra i due mondi: quello della guida locale, pratico e schietto e quello dei due turisti che “galleggiano” in un mondo trasognante tra buoni sentimenti e politically correct”. Le situazioni e i rapporti, comunque, si trascinano serenamente fino a quando la loro solitudine viene infranta da un improvviso incontro molto particolare e drammatico: un uomo armato accompagnato da due ragazzini. Da questo momento tutto cambierà.
Dopo l’incontro fatidico non si gioca più, ora è vita vera e le personalità dei personaggi vengono a galla prepotentemente, la regista scava a fondo mettendo in evidenza tre interiorità, tre solitudini assolute che si incontrano e si scontrano.
Il paesaggio arido e inospitale nel quale si svolge la vicenda aiuta lo spettatore ad immergersi nell’inconscio dei tre individui, ove si evidenzia oltremodo l’inadeguatezza e la debolezza dei caratteri. Vengono a scemare regole e inibizioni.

Il paesaggio, come dicevo, in questo film è un elemento viscerale, esso rappresenta il contenitore razionale di una vicenda banale e contemporaneamente complicata ma è soprattutto uno spazio dove risulta impossibile nascondersi, inoltre le molte inquadrature lunghe e fisse stile “Pro loco”  ne alimentano questa tesi, malgrado siano prive di artifici e le sovraesposizioni molto “naturel” al limite della sopportazione producono invero una scenografia congeniale. Un altro elemento interessante che si sposa a meraviglia con il contesto naturale è l’interprete della guida georgiana Dato (Bidzina Gujabidze, attore per caso ma scalatore vero) il quale sa trasmettere la giusta dose di ambiguità e mistero da trascendere nel thriller.

Con pochi dialoghi e situazioni ridotte al minimo la Loktev (al suo secondo lungometraggio di finzione) è riuscita a costruire un’opera che si fa apprezzare, capace di indagare nel profondo umano disseminando con giusta dose i colpi di scena necessari a rompere le certezze prima sui protagonisti e poi nello spettatore.

martedì 1 marzo 2011

the ballad of genesis and lady jaye.

Presentato alla Berlinale, in anteprima mondiale, l’ultimo film di Marie Losier, The Ballad of Genesis and Lady Jaye.
Erano almeno vent’anni che avevo completamente rimosso dalla mente l’esistenza di Genesis P-Orridge, uno dei Throbbing Gristle, band (come va chiamata ora) di musica cosiddetta industrial, genere “sperimentale” sviluppatosi negli anni Settanta.
Grazie all’articolo di Cristina Piccino (La body-art dell’amore, un solo corpo per due, Manifesto del 23 febbraio 2011) vengo a conoscenza di questa ultima follia del personaggio più incredibilmente fuori di testa del panorama artistico-musicale cha abbia mai visto. Nei primissimi anni Ottanta mi avvicinai alla musica dei già citati Throbbing Grisle, poi diventati Psychic Tv, rimanendone fatalmente folgorato. Saranno la fonte d’ispirazione per la creazione del gruppo musico-rumoreggiante dei Kultur Kamp, piccola realtà dalle grandi ambizioni artistiche poi scemate nel nulla per via del solito destino crudele di chi non ha “ne parte ne arte” e tanto meno convinzione, ma questa è un’altra storia della quale, forse, un giorno parlerò.
Tornando, invece , a parlare del film della Loiser si scopre che il buon Genesis con la sua compagna Lady Jeye negli anni Novanta iniziarono una particolare ricerca, la decostruzione della propria immagine fisica con l’intenzione di creare una entità terza non più uomo e donna ma uomo/donna, una fusione capace di sganciarsi dai limiti fisici imposti dai propri corpi. Questa pratica, battezzata col nome di Pandroginia prevede la modificazione fisica facendo ampio uso della chirurgia estetica e di travestitismo …

domenica 30 gennaio 2011

the social network

The Social Network - David Fincher - USA 2010
The social network, un film normale, ben fatto, ben recitato, costruito in maniera scolastica come le regole dell’intrattenimento richiedono, qualche furbizia a livello di montaggio e dialoghi serrati (per non dormire), qualche strizzata d’occhio nel reparto musicale (nonostante l’inserimento, nella colonna sonora, di “California Uber Alles”: non centra niente, una blasfemia). Tutto qui? Dal punto di vista filmico direi di sì, tutto qui. La candidatura agli Oscar è una certezza, gli ingredienti giusti ci sono tutti: ragazzetto di razza, prodotto di ottima accademia dogma-liberal, sufficientemente impresentabile ma dotato e capace di riscattarsi perché, malgrado le apparenze, in fondo è buono, e soprattutto ha spalancato i portoni sulla via della ri-conquista del west, prototipo idealmente “american”.
L’analisi sociologica del fenomeno Facebook attraverso la psicologia del suo ideatore rimane ai margini e nel film traspare solo a tratti. Questa mancanza di coraggio da parte degli autori riducono l’opera a prodotto trascurabile, una sorta di trascrizione, probabilmente realistica, degli eventi. Vi s’intravede la necessità di sfruttare l’occasione, o meglio il momento, prima che un possibile disinteresse nei confronti di questo argomento renda meno attraente il soggetto.

sabato 22 gennaio 2011

we want sex

Made in Dagenham - di Nigel Cole - GB 2010
Chi meglio degli inglesi sa fare il cinema in costume?  I favolosi Sixties sono preistoria eppure molte cose e situazioni si possono associare ai giorni nostri, ne riparleremo poi.
Il film racconta la (solita) storia vera che a cavallo tra i 60 e i 70 accadde in un sobborgo industriale inglese: una fondamentale lotta sindacale condotta da un gruppo di operaie sfruttate e il cui lavoro, considerato secondario, in realtà permetteva di chiudere tutto il processo produttivo della fabbrica (automobilistica, oggetto maschio per definizione). La richiesta di queste operaie consisteva semplicemente in uguali diritti e pari dignità rispetto ai colleghi maschi considerati, loro sì, specializzati. Con salari dimezzati, relegate in ambienti “rimediati” e malsani, presero coscienza dell’iniquità di trattamento e con la collaborazione di un sindacalista idealista (unico capace di interpretare, anche negli ambienti sindacali stessi, il valore sociale ed umano delle richieste) intrapresero un lungo e doloroso sciopero.
Ci si trova di fronte ad un bel film “sociale” dove non si percepisce didascalismo e i toni spesso brillanti della sceneggiatura consentono un approccio facilitato. Come si diceva, la rappresentazione degli ambienti, degli usi e modi di fare, la stessa fotografia e le inquadrature trasmettono la giusta credibilità consentendo allo spettatore una immedesimazione nell’epoca molto convincente. L’unica nota stonata, se così si può dire, rappresenta la presenza di interpreti femminili sempre sopra le righe dal punto di vista estetico ovvero troppo belle, non che sia un problema ma, troppo spesso, i casting privilegiano questa scelta a discapito dell’oggettività. Per il resto, tutti gli interpreti svolgono il loro compito in maniera onesta, le smorfie della Hawkins sono intrigantemente british (Mike Leigh con Happy-Go-Lucky gli ha dedicato addirittura tutto il film), Geraldine James (Connie), la Richardson (Barbara Castle), Rosamund Pike (splendida mogliettina borghese di un dirigente della fabbrica), Bob Hoskins (il delegato sindacale) su tutti.
Ora, il film esce in un momento storico, il nostro, involontariamente simile sotto il punto di vista del contrasto tra proletariato e padronato (termini caduti forse in disuso eppure attuali come non mai). È di pochi giorni fa il grottesco referendum imposto dall’amministratore delegato della Fiat (casualmente come la fabbrica nel film, un’importante produttore di automobili) con beneplacito del governo e una parte dei sindacati ai lavoratori. Ne è scaturito un ricatto dai contorni osceni, con poche mosse abbiamo visto sotterrare quanto conquistato in anni di lotte. Il mondo cambia e con esso la società, l’economia e il mondo del lavoro eppure, in questi cambiamenti, vediamo sempre una sola parte debole, sempre la stessa: il proletariato e le classi misere. In un solo istante si è fermato il mondo, tirata una riga e offerto solo due uscite: o così, o niente. Quindi, in realtà, di uscite ne è stata proposta una sola, l’unica che consente alla parte forte e minoritaria di perseguire ciò che più di ogni altra cosa le inietta la linfa vitale ovvero il profitto. Non si è messo in discussione il modello economico (giunto al capolinea) ma anzi, con gli stessi strumenti primordiali di secoli addietro hanno ottenuto e evidenziato la separazione tra le classi, tra uomini, tra chi può e chi no, schivando le conquiste sociali e fondamentali, ottenute nel corso della storia con sforzi e sofferenze palesi.
Come non notare le convergenze che emergono tra il nostro contemporaneo e film in analisi, anche lì c’era un sindacato “debole”, che per mantenere il suo piccolo potere favoriva lo status quo piuttosto che lottare per i suoi protetti; il ricatto indegno, da parte della casa madre (americana), al governo (inglese) di chiudere la fabbrica; istigare lo scontro tra operai, in questo caso uomini contro donne, per creare due parti contrapposte dove una era considerata realista e responsabile mentre l’altra disfattista e incosciente.