testata (theda)

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domenica 9 ottobre 2011

venere nera

Venus noire – Abdel Kechiche – Francia 2010
Con il suo solito impegno nel raccontare le storie di incomunicabilità tra tradizioni e culture eterogenee come quelle africane ed europee, l’autore rimane fedele al proprio stile di narratore.
In questo caso non indaga nella contemporaneità, nel difficile rapporto tra immigrati, di prima seconda o terza generazione, e coloro che si definiscono cittadini autoctoni, bensì analizza e racconta una vicenda realmente accaduta all’inizio del XIX secolo dove una donna di origine sudafricana lascia la sua terra per seguire il “padrone” afrikaner in Inghilterra. La donna di etnia Khoi per le sue caratteristiche fisiche si trasformerà in un “fenomeno da baraccone” nei teatri di terz’ordine, prima londinesi poi parigini.
La libertà e l’uguaglianza non esistono, men che meno per una donna africana in Europa dove l’illusione di riscatto si trasforma in privazione della propria personalità. La libertà e l’uguaglianza non esistono se entrano in gioco interessi particolari non necessariamente economici, ma anche ambizioni personali, arroganza e vanità. La libertà e l’uguaglianza non potevano esistere due secoli fa e non possono esistere ora, la vicenda della venere nera (Saartjie Baartman) diviene una tragica metafora contemporanea, capace di includere bianchi e neri, poveri, ignoranti, malati, “spiriti liberi”, diversi.
Kechiche ricostruisce la storia, partendo dalla fine, dal momento in cui un anatomista davanti ad uno stuolo di accademici spiega le caratteristiche degli ottentotti utilizzando il calco, disegni e i genitali amputati a Saartjie dopo la sua morte, quindi inizia il racconto mantenendo una trama lineare riuscendo a descrivere i personaggi che di volta in volta incontreranno la protagonista senza facile retorica e didascalismo. Malgrado il “campo sia minato”, non indugia oltre il necessario nel voyeurismo, benché talvolta sembra voglia incoraggiare una sorta di perversione psicologica nello spettatore. Purtroppo la lunghezza eccessiva del film, un’insistita ripetitività delle situazioni e l’uso logorroico delle parole nei dialoghi fanno svanire l’interesse della visione (pratica già sperimentata in Cous Cous).
Notevole la prova dell’attrice (Yahima Torrès) capace di trasmettere con freddezza i sentimenti del personaggio restituendo la verità e la complessità della vita e mantenendo una distanza sostanziale con lo spettatore che non riesce a parteggiare per lei.