Con il suo solito impegno nel raccontare le storie di
incomunicabilità tra tradizioni e culture eterogenee come quelle africane ed
europee, l’autore rimane fedele al proprio stile di narratore.
In questo caso non indaga nella contemporaneità, nel
difficile rapporto tra immigrati, di prima seconda o terza generazione, e
coloro che si definiscono cittadini autoctoni, bensì analizza e racconta una
vicenda realmente accaduta all’inizio del XIX secolo dove una donna di origine
sudafricana lascia la sua terra per seguire il “padrone” afrikaner in
Inghilterra. La donna di etnia Khoi per le sue caratteristiche fisiche si
trasformerà in un “fenomeno da baraccone” nei teatri di terz’ordine, prima londinesi
poi parigini.
La libertà e l’uguaglianza non esistono, men che meno per
una donna africana in Europa dove l’illusione di riscatto si trasforma in privazione
della propria personalità. La libertà e l’uguaglianza non esistono se entrano
in gioco interessi particolari non necessariamente economici, ma anche ambizioni
personali, arroganza e vanità. La libertà e l’uguaglianza non potevano esistere
due secoli fa e non possono esistere ora, la vicenda della venere nera (Saartjie
Baartman) diviene una tragica metafora contemporanea, capace di includere
bianchi e neri, poveri, ignoranti, malati, “spiriti liberi”, diversi.
Kechiche ricostruisce la storia, partendo dalla fine, dal
momento in cui un anatomista davanti ad uno stuolo di accademici spiega le
caratteristiche degli ottentotti utilizzando il calco, disegni e i genitali amputati
a Saartjie dopo la sua morte, quindi inizia il racconto mantenendo una trama
lineare riuscendo a descrivere i personaggi che di volta in volta incontreranno
la protagonista senza facile retorica e didascalismo. Malgrado il “campo sia
minato”, non indugia oltre il necessario nel voyeurismo, benché talvolta sembra
voglia incoraggiare una sorta di perversione psicologica nello spettatore. Purtroppo
la lunghezza eccessiva del film, un’insistita ripetitività delle situazioni e l’uso
logorroico delle parole nei dialoghi fanno svanire l’interesse della visione
(pratica già sperimentata in Cous Cous).
Notevole la prova dell’attrice (Yahima Torrès) capace di
trasmettere con freddezza i sentimenti del personaggio restituendo la verità e
la complessità della vita e mantenendo una distanza sostanziale con lo
spettatore che non riesce a parteggiare per lei.