testata (theda)

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domenica 30 gennaio 2011

the social network

The Social Network - David Fincher - USA 2010
The social network, un film normale, ben fatto, ben recitato, costruito in maniera scolastica come le regole dell’intrattenimento richiedono, qualche furbizia a livello di montaggio e dialoghi serrati (per non dormire), qualche strizzata d’occhio nel reparto musicale (nonostante l’inserimento, nella colonna sonora, di “California Uber Alles”: non centra niente, una blasfemia). Tutto qui? Dal punto di vista filmico direi di sì, tutto qui. La candidatura agli Oscar è una certezza, gli ingredienti giusti ci sono tutti: ragazzetto di razza, prodotto di ottima accademia dogma-liberal, sufficientemente impresentabile ma dotato e capace di riscattarsi perché, malgrado le apparenze, in fondo è buono, e soprattutto ha spalancato i portoni sulla via della ri-conquista del west, prototipo idealmente “american”.
L’analisi sociologica del fenomeno Facebook attraverso la psicologia del suo ideatore rimane ai margini e nel film traspare solo a tratti. Questa mancanza di coraggio da parte degli autori riducono l’opera a prodotto trascurabile, una sorta di trascrizione, probabilmente realistica, degli eventi. Vi s’intravede la necessità di sfruttare l’occasione, o meglio il momento, prima che un possibile disinteresse nei confronti di questo argomento renda meno attraente il soggetto.

sabato 22 gennaio 2011

we want sex

Made in Dagenham - di Nigel Cole - GB 2010
Chi meglio degli inglesi sa fare il cinema in costume?  I favolosi Sixties sono preistoria eppure molte cose e situazioni si possono associare ai giorni nostri, ne riparleremo poi.
Il film racconta la (solita) storia vera che a cavallo tra i 60 e i 70 accadde in un sobborgo industriale inglese: una fondamentale lotta sindacale condotta da un gruppo di operaie sfruttate e il cui lavoro, considerato secondario, in realtà permetteva di chiudere tutto il processo produttivo della fabbrica (automobilistica, oggetto maschio per definizione). La richiesta di queste operaie consisteva semplicemente in uguali diritti e pari dignità rispetto ai colleghi maschi considerati, loro sì, specializzati. Con salari dimezzati, relegate in ambienti “rimediati” e malsani, presero coscienza dell’iniquità di trattamento e con la collaborazione di un sindacalista idealista (unico capace di interpretare, anche negli ambienti sindacali stessi, il valore sociale ed umano delle richieste) intrapresero un lungo e doloroso sciopero.
Ci si trova di fronte ad un bel film “sociale” dove non si percepisce didascalismo e i toni spesso brillanti della sceneggiatura consentono un approccio facilitato. Come si diceva, la rappresentazione degli ambienti, degli usi e modi di fare, la stessa fotografia e le inquadrature trasmettono la giusta credibilità consentendo allo spettatore una immedesimazione nell’epoca molto convincente. L’unica nota stonata, se così si può dire, rappresenta la presenza di interpreti femminili sempre sopra le righe dal punto di vista estetico ovvero troppo belle, non che sia un problema ma, troppo spesso, i casting privilegiano questa scelta a discapito dell’oggettività. Per il resto, tutti gli interpreti svolgono il loro compito in maniera onesta, le smorfie della Hawkins sono intrigantemente british (Mike Leigh con Happy-Go-Lucky gli ha dedicato addirittura tutto il film), Geraldine James (Connie), la Richardson (Barbara Castle), Rosamund Pike (splendida mogliettina borghese di un dirigente della fabbrica), Bob Hoskins (il delegato sindacale) su tutti.
Ora, il film esce in un momento storico, il nostro, involontariamente simile sotto il punto di vista del contrasto tra proletariato e padronato (termini caduti forse in disuso eppure attuali come non mai). È di pochi giorni fa il grottesco referendum imposto dall’amministratore delegato della Fiat (casualmente come la fabbrica nel film, un’importante produttore di automobili) con beneplacito del governo e una parte dei sindacati ai lavoratori. Ne è scaturito un ricatto dai contorni osceni, con poche mosse abbiamo visto sotterrare quanto conquistato in anni di lotte. Il mondo cambia e con esso la società, l’economia e il mondo del lavoro eppure, in questi cambiamenti, vediamo sempre una sola parte debole, sempre la stessa: il proletariato e le classi misere. In un solo istante si è fermato il mondo, tirata una riga e offerto solo due uscite: o così, o niente. Quindi, in realtà, di uscite ne è stata proposta una sola, l’unica che consente alla parte forte e minoritaria di perseguire ciò che più di ogni altra cosa le inietta la linfa vitale ovvero il profitto. Non si è messo in discussione il modello economico (giunto al capolinea) ma anzi, con gli stessi strumenti primordiali di secoli addietro hanno ottenuto e evidenziato la separazione tra le classi, tra uomini, tra chi può e chi no, schivando le conquiste sociali e fondamentali, ottenute nel corso della storia con sforzi e sofferenze palesi.
Come non notare le convergenze che emergono tra il nostro contemporaneo e film in analisi, anche lì c’era un sindacato “debole”, che per mantenere il suo piccolo potere favoriva lo status quo piuttosto che lottare per i suoi protetti; il ricatto indegno, da parte della casa madre (americana), al governo (inglese) di chiudere la fabbrica; istigare lo scontro tra operai, in questo caso uomini contro donne, per creare due parti contrapposte dove una era considerata realista e responsabile mentre l’altra disfattista e incosciente.