testata (theda)

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lunedì 20 agosto 2012

museum hours

Museum hours - Jem Cohen - Austria/USA - 2012
Armiamoci di illimitata pazienza, taccuino, matita e partiamo per questo imprescindibile tour… artistico, turistico e non solo attraversando le sale del Kuntshistorisches Museum di Vienna (con particolare applicazione per Brueghel il Vecchio), girovagando per le strade della medesima città tra pittoreschi scorci, sale da tea e corsie d’ospedale al capezzale di una donna in coma (?).
Un sorvegliante del sopracitato museo, che un tempo lavorava al seguito di rumorosi gruppi rock, passa le sue ore nella quiete del museo contemplando le opere e soprattutto chi le guarda, tra questi egli nota una donna che periodicamente vi trascorre il suo tempo rapita dal fascino dell’arte esposta. I due fanno amicizia imparando a conoscersi nei loro aspetti più privati. Lei, canadese, si trova a Vienna interdetta, spaesata e senza troppi soldi, per assistere una parente (cugina ormai persa di vista) malata terminale ricoverata all’ospedale. Sia il guardiano che la donna sono due anime solitarie che si incontrano e si riconoscono, insieme intraprenderanno il medesimo percorso dello spettatore relazionando la vita normale, quella di tutti i giorni fatta di momenti per lo più insignificanti, con l’arte: come tiene a sottolineare l’autore del film, l’arte ci comunica cose e fatti, per scoprirne l’essenza basta lasciarsi andare cercando di abbattere quelle barriere che solitamente si ergono tra le due dimensioni; in tal senso pare particolarmente esplicita la sequenza che mostra tre avventori completamente nudi mentre contemplano i dipinti (NdR).
I frequentatori di musei o gallerie d’arte non sempre sono preparati nel cogliere tutte le sfumature del “messaggio” artistico, pertanto giunge in aiuto il cicerone. Nello specifico, abbandonati i due amici, si sprofonda in estenuanti spiegazioni, ogni dettaglio, di non so più quale quadro di Brueghel, viene descritto esaurientemente, come l’omino che defeca. L’anima documentaristica di Cohen si palesa prepotentemente e nel il pittore fiammingo egli trova un suo importante predecessore: “capace com’era d’illustrare il reale rappresenta un grande documentarista del suo tempo”.
Di tanto in tanto si esce dalle imponenti stanze del museo, per percorrere le strade viennesi ammantate di malinconico grigiore, alla scoperta di vedute interessanti e mai semplici “cartoline” turistiche.

Il film non scende a compromessi, per tutta la sua durata costringe lo spettatore ha cercare tra i vari elementi una personale logica narrativa, e se risulta interessante le relazione tra vita e arte meno convincente appare l’obbligo ad assistere alla visione di un documentario realizzato con tecnica ineccepibile: “BBC style”.

Tra i produttori dell'opera figura l'amica di Jem Cohen, Patti Smith.

Jem Cohen - Locarno 2012

nuclear waste

Yaderni wydhody - Myroslav Slaboshpytskiy - Ucraina - 2012
Chernobyl, la vita quotidiana ruota attorno alla propria e ben nota tragedia ambientale, ma non senza speranze.

In un territorio devastato e col futuro ineludibilmente segnato, la vita degli uomini non è particolarmente diversa rispetto quella di coloro che vivono in zone “tranquille”, in fondo tutto il mondo, per un verso o per l’altro, è contaminato e non solo dall’inquinamento. La ragione fondamentale del vivere, del sopravvivere, sembra “limitarsi” al mantenimento della razza. Una razza contaminata e vittima, suo (nostro) malgrado dell’infinito nonsense intrinseco nella natura deleteria ed inutile dell’essere vivente razionale.
Piccolo capolavoro! Con la sua schietta semplicità, per nulla didascalica, offre uno strumento di elaborazione antropologica della cultura umana.

Myroslav Slaboshpytskiy - Locarno, 2012

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johnnie to

Johnnie To - Locarno 2012

leviathan

Leviathan - Lucien Castaing-Taylor/Véréna Paravel - GB/USA/Francia - 2012
Una barca da pesca solca le acque dell’oceano Atlantico seguendo le medesime, fantastiche, rotte della baleniera Pequod. Ma in questo caso non ci si trova di fronte ad un racconto d’avventura bensì dentro la cronaca reale di un equipaggio alle prese con la fatica e il disagio. La trama si sviluppa seguendo un andamento documentaristico, ipnotico e decisamente sperimentale, difficilmente catalogabile.
Questo lavoro inizialmente doveva essere un film politico incentrato attorno al “Leviathan” di Hobbes poi, intrapreso il viaggio in mare, la coppia di autori ha preferito concentrarsi su una diversa idea, principalmente agganciata al Leviatano biblico quindi il “Moby Dick” di Melville: la balena che per le sue dimensioni e la sua potenza bene rappresentava la figura mitologica; stessi mari, stesso confronto tra uomo e natura.
Una grande impresa cinematografica ma non nel senso tecnico, che comunque ha richiesto un grosso sforzo di tempo e di mezzi (circa un anno di riprese e 12 telecamere disseminate in ogni angolo della barca), bensì, come ha raccontato Véréna Paravel, dal punto di vista fisico e soprattutto emotivo: «è stata un’esperienza molto violenta e difficile, con la percezione di capire il significato della parola Inferno», ma anche: «Leviatano, sinonimo di mostro che se risvegliato è in grado di sconvolgere l’ordine del mondo in caos».

Il rumore costante dei motori intervallato dallo sciabordio dell’acqua, il garrire dei gabbiani, le catene o le cime avvolte dai verricelli, il tonfo dei pesci liberati dalle reti sul ponte della nave compongono l’esclusiva e sinistra colonna sonora; le immagini fornite dalle telecamere, letteralmente gettate senza scrupoli tra i pesci boccheggianti o legate sullo scafo che si infrange tra le onde, oppure primissimi piani sulla macellazione delle mante con uncini e coltello seguendo i movimenti regolari e ritmati dei pescatori, coinvolgono totalmente generando una forza espressiva estrema tra il sogno e l’incubo.
Il cinema, questo vero cinema, si fa occhio, vede e rilascia senza compromessi ne mediazioni all’Io profondo percezioni ancestrali, totalizzanti. Il cinema che racconta antitetico al cinema “raccontante”, immagini pure che attraversano il (e non solo un) mondo pieno di situazioni.

sabato 18 agosto 2012

somebody up there like me

Somebody up there likes me - Bob Byington - USA 2011
Lassù qualcuno ci guarda, forse ci ama o forse si prende gioco di noi oppure nessuno ci ama, ma pensarlo ci aiuta a prendere la vita con immaginifica ironia. Commedia caustica, in quota Sundance, da non confondere con l’omonimo film di Robert Wise del 1956 dove, anziché la storia di un pugile che si riscatterà da un destino fosco, vediamo il susseguirsi di eventi, normalmente legati alla banale vita quotidiana fatta di gioie e dolori per uno stralunato e apatico personaggio dotato di eccezionale cinismo, eternamente giovane ma circondato da una varia umanità che subisce il naturale cedimento fisico. Sì, perché Max Youngman, il personaggio principale del film, ha un segreto che lo rende una sorta di Dorian Gray dei nostri tempi, una misteriosa valigia blu che emana energia vitale capace di donare l’eterna giovinezza a colui che la apre.
«Tutti pensiamo che non moriremo mai». Fino a quando non assisterai alla dipartita del tuo primo gatto, allora, presa coscienza della realtà rimossa, qualcosa può cambiare: la vita si presenterà con ineludibile razionalità, sbattendoti in faccia che quel giorno prima o poi arriverà anche per te. Partendo da questo semplice presupposto Bob Byington, l’autore e regista del film, ha condensato il suo pensiero sull’argomento, creando un personale antidoto sia per affrontare l’ineluttabile sia per superare tutta quella serie di esperienze negative della quale la vita è costellata: il disincanto come condizione esistenziale poiché non esistono vie di fuga, la vita procede comunque e, forse, non ne vale la pena pensarci troppo.

Un bel gioco che permette di sopportare “la condanna di esistere” è probabilmente il grande segreto della felicità o almeno della serenità interiore: il sogno, la fantasia, la follia possono rappresentare una soluzione per edificare il proprio mondo magico e perfetto malgrado, prima o poi, la famigerata riga del prodotto si presenterà; la propria esistenza finirà lasciando l'incompiutezza umana come un tassello mancante del puzzle e solo l'illusione di aver lasciato per i posteri qualcosa di utile o più banalmente un'accozzaglia di geni, alleggerirà l'angoscia della propria sistematica inutilità.