Il film indaga la vita di un eremita dei nostri tempi, un uomo
che a modo suo si è staccato dalla società “civile” scegliendo di vivere in
solitudine nella natura delle Highland
scozzesi, circondato di rottami e rifiuti della contemporaneità - materia da
plasmare e trasformare in oggetti utili sia per sopravvivere sia per giocare.
Jake Williams è il nome di questo stravagante personaggio dalle sembianze
tardo-freak, che incurante (almeno apparentemente) del tempo e delle stagioni
si è costruito un habitat “fantastico” a sua misura. La sua esistenza ruota
intorno ad un grande casolare da lui stesso costruito qualche decennio prima,
coronamento di un sogno costatogli due anni di lavoro marittimo. Tra le
attività del protagonista rimarranno memorabili la costruzione e l’utilizzo di
una improbabile zattera oppure la trasformazione di una vecchia e scalcinata
roulotte in terrazzo belvedere. La zattera rappresenta uno dei momenti più
intensi di questo curioso percorso solitario. L’imbarcazione è costituita da una
rete metallica, un materassino gonfiabile e delle taniche in plastica il tutto
unito alla meglio, il momento del “varo” rappresenta un indimenticabile occasione
di pura suspense e quando il suo progettista si lascia andare alla deriva
spinto più dal pensiero che dall’inesistente corrente delle acque di un placido
laghetto ne consegue un momento di incantata comicità. In questo innocente
percorso vediamo come Jake ricicla una roulotte, ormai inutilizzabile, in “rifugio”
sospeso nel vuoto issata in cima ad un albero e godere del panorama: rimarrà
uno dei tanti misteri, che disseminano il film, su come questo sia stato reso
possibile. Come descrive il film, ogni oggetto sapientemente manipolato trova una
nuova destinazione d’uso: con la sistemazione dei suoi rottami jack crea attrezzature
di ogni tipo come ad esempio la doccia con la quale si lava, senza sapone, nel
mezzo di una caotica cucina.
Ogni azione come il lavarsi, leggere un libro, ascoltare dei
vecchi dischi, diventano un lavoro, una pratica per godere ogni minuto della
propria vita nobilitandola senza dover sottostare al ben che minimo diktat.
Concludendo, malgrado Jake Williams – già protagonista di un
precedente lavoro di Rivers – abbia scelto di vivere in solitudine, se si esclude
la compagnia di un gatto, ha accettato che un film-maker si intrufolasse nella
sua intimità lasciandosi riprendere apparentemente senza limite.
Costruire un racconto partendo dal vissuto reale può essere particolarmente
interessante, e in questo periodo storico sembra essere una scelta stilistica
vincente. Non è necessaria una particolare capacità tecnica, anzi gli evidenti
difetti si possono spacciare per introspezioni linguistiche ricche di
significati poetici, inoltre non sono necessari grandi investimenti economici e
questo libera gli autori di dare libero sfogo alle proprie fantasie. Two years at sea appartiene a questo
sottogenere, il documentario non documentario, girato tutto in bianco e nero
sgranato, approssimativo, la fotografia trascurata, presa diretta senza dialogo
e senza voce fuori campo (neanche il gatto si azzarda nel ben che minimo
miagolio), azioni semplici: manierismo o cinema puro?
Ben Rivers racconta, la vita di un uomo che apparentemente
si è staccato dalla società ma capace di svolgere abilmente il ruolo d’attore,
e sfrutta furbescamente l’occasione per realizzare un’opera emozionante e
magicamente visionaria. Cinema vero.