testata (theda)

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domenica 28 agosto 2011

fahrenheit 9/11

Si è gia detto molto, quasi tutto, su questo film. L'uscita nelle sale rappresentava ormai un semplice fatto tecnico. Che Moore sappia descrivere con ironia anche le circostanze più spregevoli era già dimostrato, e ancora una volta ha centrato il segno. Che, ahinoi, le sorti di questo mondo sia un disegno più o meno tracciato nelle tasche e nel cervello di un manipolo di arroganti e stolti faccendieri (non necessariamente anglofoni) è appurato. Che il protagonista non è altro che una immaginetta da impegnare (e all'occorrenza bruciare) per i media spero sia chiaro. Azzarderei anche, che i regimi perseguono sempre e comunque l'interesse di chi li guida. Quindi, questo documentario non ci racconta niente che già non sappiamo e, accende sì la miccia, smuove i sentimenti e il senso critico, ma per spegnersi non appena si varcano le soglie della sala cinematografica. Le bugie, i sotterfugi, i complotti rientreranno in quel recinto di retorica e politica facilona. Le lingue sciolte dei "soliti teorici" riprodurranno il consueto, rassicurante "tifo sportivo" del noi contro voi. In sostanza, opera utile e propedeutica ma costruita con metodo più consono alla "parte" che si vuole colpire, tanto da far venire alcuni dubbi: un americano è sufficientemente "puro" per screditare un americano?

gangs of New York


Film importante, questo Gangs of New York. Molto probabilmente si disputerà il podio per il miglior film dell'anno in corso. Non privo, comunque, di cadute di stile. L'impatto visivo è forte, pieno di spettacolari rappresentazioni che spesso si traducono in immagini, forse, più metaforiche che logiche. Impressionante il paradosso prodotto nella "Casa di Dio" più vicina all'Inferno dantesco che ad uno sperato paradiso, il quale sembra meglio rappresentato da un ideale campo di battaglia. Personaggi bellissimi, affascinanti per come sono immersi nel sudiciume vero e intellettuale, cosi sudati, sporchi e sanguinolenti più vicini a delle bestie in gabbia che non ad esseri superiori guidati da un ideale di giustizia, libertà e democrazia. Già, bestie in gabbia, schiavi della loro stessa natura, l'evoluzione. Come un unico grande e vero senso della vita l'evoluzione riesce, di volta in volta, a crearsi i modelli da seguire. Pare che l'uomo sia degno solo di ciò che il proprio istinto sappia produrre, dei modelli appunto. L'America stessa è ormai un modello accettato ed assoluto. Ma il presunto antiamericanismo non ha importanza, come non ne ha la presunta anticlericalità. Sembra quasi che oggigiorno si voglia ridurre ogni messaggio impegnativo a queste banalità. I messaggi sono tanti e si percepiscono agevolmente, spesso tutt'altro che ottimistici. Anche se certe situazioni come ad esempio la sfida tra pompieri, probabilmente, sottintende una conoscenza raffinata della storia americana. Da brivido la scena dei soldati che sparano sui cittadini rivoltosi, o dello stesso popolo, praticamente inerte, sotto le bombe dei cannoni (i padri che ripudiano i figli?). Per non parlare della farsa delle elezioni, così come dell'idea acerba (ma neanche tanto) della democrazia e dei suoi valori non sempre rispettabili e spesso dogmatici. E quel sottolineare sempre al patetico orgoglio patriottico: - Muoio da vero americano -; quando si capisce bene che non ci sono eroi ma, in fondo, tutti sono sufficientemente criminali e crudeli per essere vincitori. Per quanto riguarda le cadute di stile, non ho apprezzato il personaggio femminile, o meglio quel tipo di personaggio femminile. Appare come un riempitivo che poco ha a che fare con la storia. E quel petto tornito del virgulto irlandese pare improbabile e decisamente fuori luogo (chi non lo ha notato?). Hanno da trovate un po' ruffiane, per il grande pubblico.

million dollar baby


Capace di penetrare ferocemente nell'animo. Forse, in alcune occasioni, è necessario socchiudere gli occhi per evitare di afferrare quegli appigli che sembrano collocati di tanto in tanto come sorta di antidoto, vie di fuga per non farsi massacrare: i molti temi trattati hanno un onesto sviluppo e quando la boxe o la sua rappresentazione, la suburra o i suoi luoghi comuni, la religiosità che non offre spesso risposte illuminate e le vicissitudini quotidiane sembrano dettare il filo conduttore, si è liberi di divagare. Chi decide di accettare e seguire lo scavo più profondo non ha speranza. Probabilmente una cicatrice rimarrà per sempre e ogni qualvolta si presenterà l'occasione sarà pronta per riaprirsi e mostrarci quell'essenza, a volte insopportabile, della vita. Vorrei poter sconsigliarne la visione a chi ha occhi molto grandi, sagaci, ma sarebbe una violenza ancora maggiore.

she, a chinese

Mei, giovane ragazza cinese, è ossessionata dalle sue condizioni di vita semplici e rozze. La campagna dove è cresciuta gli impone prove dure e disumane che la sua personalità fatica ad accettare, sogna una vita diversa magari in città o addirittura in Occidente. Un lungo viaggio, anche interiore, una fuga verso l’ignoto con caparbia volontà e con la speranza di realizzare i propri sogni.
Il film, vagamente autobiografico (la regista per certi versi ha percorso gli stessi passi) possiede la capacità di restituire, nella prima parte, un’immagine della Cina sia rurale che urbana autenticamente cruda, sporca, miserabile e violenta, dove muoversi agevolmente diventa una sfida costante per riuscire a mantenere una propria dignità. Uno sguardo che rasenta la perversione quasi morbosa tipica di coloro che dal “primo mondo” osservano la lotta per la sopravvivenza dei mondi altri. La seconda parte si svolge nel civilissimo Occidente, nella Londra multietnica, dove il film perde, dal punto di vista visivo, fascino ma non interesse per come indaga le differenti culture che di volta in volta Mei, la protagonista, dovrà affrontare (la stessa cultura cinese in una comunità di emigrati dove ritroverà ciò da cui era scappata, quella opportunista occidentale, quella mussulmana). In fondo i due mondi, oriente ed occidente, non sono troppo diversi.
Ci si trova di fronte ad una disperata ricerca della via per “tirare avanti – tirare a campare”, dove i sogni e le speranze rimangono sostanzialmente stampate solo nelle riviste ed i sogni impressi su poster che vivacizzano squallide pareti di stanzette disadorne. Dove possedere “cose” ha poca importanza poiché prima o poi si dovrà morire e dove l’importante sembra essere solo riempire la pancia… in tutti i sensi.

il caimano


Moretti ci ha dimostrato come e perché Berlusconi è comunista. W il comunismo. W Berlusconi.
Buona prova di decriptazione di uno status quo ormai metabolizzato. Con un buon gioco di metafore e fatti reali Moretti imbastisce uno scavo nell’inconscio italico (e non solo) avvezzo al qualunquismo e permeabile a sogni e fantasie metafisiche, incapace di indignarsi per lo stravolgimento del vocabolario ma non verso l’indottrinamento massificato e omologante. Bel manifesto, icona del “capo” dove Berlusconi ne esce assolutamente vincitore ciononostante urlo di sinistra a un popolo di sinistra ingabbiato nel berlusconismo.

V per vendetta

V per vendetta
Il richiamo ad Orwell nel film è forte e quando sono queste le tematiche non ci si può sottrarre dalla fascinazione.
”L’eroe rivoluzionario” frutto stesso del potere, baco incontrollabile della fatalità e dell’indecifrabile casualità delle cose, aspira al potere.
Nel nostro esempio il sig. V, non a caso, tiene per ultimo il palazzo del governo prima mina le fondamenta dei poteri laterali. Pilastri del potere centrale. Tra questi il palazzo-ministero della televisione-informazione. La vera “mente”, il sistema nervoso della gestione politica risiede nella propaganda, nella VERITÀ. Il sangue e la linfa viaggiano attraverso i cavi e le onde radio, insinuandosi nel DNA, nel nucleo logico del pensiero di ogni singolo umano deputato a divenire tassello strutturale che permette al sistema di reggersi in piedi e anzi autoalimentarsi. Così i diversi tutti saranno nemici, cancri, mine: checche, malati o spietati terroristi.
Ciononostante la fine di un ciclo è inevitabile, qui l’indefinibile V prenderà le sembianze fittizie di un eroe qualunque nel quale la massa, il popolo si identifica. Soppianterà il vecchio per instaurare il nuovo non necessariamente uguale nella forma e nel metodo ma a sua volta destinato a diventare, per quanto sfaccettato, monolitico potere. Riuscirà nell’intento, ma sappiamo che malgrado le buone intenzioni NOI non saremo mai liberi.

inland empire

Il cinema è morto (qualcuno l'ha detto). Il cinema sta rinascendo?
Opera ostica, incomprensibile non giudicabile. Prodotto disturbante ed eccezionale per certi versi originalissimo se non altro per l'audacia dell'autore che con pochi preamboli ci vuole trasferire in una dimensione personale, la sua, ma che concede (finalmente) la libertà di lasciarsi ipnotizzare da atmosfere intriganti ed eccitanti contrapposte ad altre deliranti e subdole. Avanziamo, con equilibrio precario, tra clamorosa presa in giro e capolavoro astratto di prim'ordine: dedicato a tutti coloro che non temono di perdere tre ore della propria vita.

un chien andalou

Raccontare il film è come ricostruire la "logica" irrazionale di un sogno, o di un incubo.
All'inizio, dopo la didascalia "Il était une fois...", un uomo affila un rasoio e, dopo aver visto in cielo una sottile nuvola passare davanti alla luna piena, taglia l'occhio di una donna.
Didascalia: "Huit ans après". Un uomo percorre in bicicletta le vie d'una città. Porta appesa al collo una scatola col coperchio a strette righe diagonali. Una donna che sta leggendo in casa propria ode qualcosa in strada, si affaccia alla finestra e vede l'uomo in bicicletta cadere proprio davanti alla sua porta. Scende e, riconosciutolo, lo bacia a lungo. Di nuovo in casa, la vediamo distendere su un letto gli oggetti personali dell'uomo, compresa una cravatta che ha tolto dalla scatola dell'uomo. Nella stessa stanza un uomo in piedi (lo stesso?) accanto ad una porta guarda la propria mano coperta di formiche con uno sguardo allucinato.
La stessa scatola di prima riappare, in mezzo alla strada sottostante, in mano a uno strano individuo (l'ermafrodito) che sta toccando con un bastone una mano mozzata al suolo. Viene circondato da una folla inferocita e allibita, tenuta a bada da un vigile che poi la raccoglie la mano e la consegna a quello strano tipo, che la richiude nella scatola, stringendosela al petto. Nella strada cominciano a passare delle auto ad una certa velocità e dalla finestra l'uomo delle formiche ha uno sguardo fanatico: sembra si auguri, pregustandolo, che la strana persona della mano mozzata venga investita: cosa che puntualmente accade.
Nella stanza l'uomo è preso da impulsi aggressivi e si avventa sulla ragazza toccandole il seno, prima con furia poi più dolcemente (sotto le sue mani, con un gioco di alterne sovrimpressioni il seno della donna è dapprima coperto dal vestito poi nudo). La donna si libera, fugge e preso dal muro un oggetto contundente, lo usa per difendersi. L'uomo, sempre preso da un'esaltazione notevole, comincia a trascinare a fatica un pianoforte, su cui è poggiato un bue squartato e al quale sono legati due giovani seminaristi. La donna fugge nell'altra stanza e chiude la porta, incastrando nella fessura la mano dell'uomo, di nuovo coperta di formiche, che cerca di inseguirla.
Nella stanza, il giovane uomo caduto dalla bici è disteso sul letto. Didascalia: "A trois heures du matin". Un uomo sale le scale e suona il campanello. Gli viene ad aprire proprio l'uomo della bicicletta. tra i due scoppia un alterco e il nuovo venuto getta dalla finestra alcuni oggetti appartenenti all'abbigliamento del giovane.
Didascalia: "Seize ans avant". il nuovo venuto prende un libro da un banco di scuola e lo porge all'altro, nelle cui mani il libro si trasforma in una pistola. Lo sguardo dell'uomo cambia, diviene feroce e uno sparo pone fine alla vita dell'intruso. La sua morte, tuttavia, si compie in un giardino pubblico, mentre alcuni passanti lo ignorano.
La donna nella stanza vede su un muro una farfalla notturna sul cui corpo spicca il disegno d'un teschio. L'uomo aggressivo si pone una mano davanti alla bocca e quando la toglie la sua bocca è scomparsa e poi al suo posto ci sono i peli scomparsi dalle ascelle di lei. La donna esce dalla stanza e si ritrova su una spiaggia dove incontra di nuovo il giovane della bicicletta. I due passeggiano serenamente. Al di sopra di loro campeggia, sotto forma di una sorta d'insegna al neon, la didascalia "Au printemps", mentre si sdraiano vestiti sulla sabbia e conversano amabilmente.



hitoshi matsumoto

È arrivato Matsumoto…
«Ottimooo!» Evviva Matsumoto.
Che il Giappone fosse un paese ricco di talenti è cosa risaputa eppure Hitoshi Matsumoto non figurava tra questi, praticamente sconosciuto in Italia (non in America dove ha avuto un certo riscontro di critica) ma grazie al festival di Locarno, il quale gli ha dedicato un programma speciale, potrebbe inserirsi, anche nel nostro paese, nell’elenco degli autori da seguire.
La sua attività ultradecennale in campo televisivo, spesso in coppia con Hamasa Masatoshi, ne ha fatto uno dei comici più popolari ed apprezzati in patria. Nel 2004 avviene la svolta verso il cinema, Matsumoto sedotto da sempre dalla Settima arte, comincia a dedicarsi ai film realizzando, fino ad ora, tre lungometraggi: Dai Nipponjin (Big Man Japan – 2007), Shinboru (Symbol – 2009), Saya Zamurai (Scabbard Samurai – 2011); sono film molto diversi tra loro ma accomunati da una straordinaria venatura ironica, mai banale (a volte addirittura astrusa), molto ricca e fresca, sempre estremamente godibile (poi quando, come nei primi due film, è anche il protagonista, la sua fisicità stralunata crea un impatto ancor più coinvolgente e trascinante).
Il cinema contemporaneo giapponese ha espresso un nuovo “genio”: da seguire assolutamente.
«Matsumoto-san… Ottimooo! Ottimooo!»


Locarno, 2011

aleksei fedorchenko

Pesaro - 2010 

hana makhmalbaf


Venezia - 2009 


domenica 21 agosto 2011

the loneliest planet



The Loneliest Planet - Julia Loktev - USA/germania 2011
Siamo in Georgia (Caucaso), una coppia di fidanzati americani (lui ispanico) prossimi al matrimonio affrontano un viaggio in queste terre selvagge seguendo i dettami del turismo “dal basso” ovvero zaino in spalla e scarpe comode, incontri ravvicinati con i locali, con le loro usanze e i loro costumi per meglio sentirsi inseriti nell’ambiente circostante, in una ormai tipica illusione del “vero viaggiatore” contemporaneo e occidentale. Per non perdere emozioni e luoghi particolarmente interessanti, essi, si affidano ad una guida locale.
Tra paesaggi misteriosi e insidiosi, deserti, gole, montagne spoglie e fiumi i tre camminatori tirano avanti tra barzellette, aneddoti e scherzi dell’ambiguo accompagnatore georgiano il quale si prende gioco in più di una occasione dei due innamorati esploratori, inebriati dalla natura sempre più brulla e desolata. Piano piano, passo dopo passo si cominciano ad intravedere le differenze tra i due mondi: quello della guida locale, pratico e schietto e quello dei due turisti che “galleggiano” in un mondo trasognante tra buoni sentimenti e politically correct”. Le situazioni e i rapporti, comunque, si trascinano serenamente fino a quando la loro solitudine viene infranta da un improvviso incontro molto particolare e drammatico: un uomo armato accompagnato da due ragazzini. Da questo momento tutto cambierà.
Dopo l’incontro fatidico non si gioca più, ora è vita vera e le personalità dei personaggi vengono a galla prepotentemente, la regista scava a fondo mettendo in evidenza tre interiorità, tre solitudini assolute che si incontrano e si scontrano.
Il paesaggio arido e inospitale nel quale si svolge la vicenda aiuta lo spettatore ad immergersi nell’inconscio dei tre individui, ove si evidenzia oltremodo l’inadeguatezza e la debolezza dei caratteri. Vengono a scemare regole e inibizioni.

Il paesaggio, come dicevo, in questo film è un elemento viscerale, esso rappresenta il contenitore razionale di una vicenda banale e contemporaneamente complicata ma è soprattutto uno spazio dove risulta impossibile nascondersi, inoltre le molte inquadrature lunghe e fisse stile “Pro loco”  ne alimentano questa tesi, malgrado siano prive di artifici e le sovraesposizioni molto “naturel” al limite della sopportazione producono invero una scenografia congeniale. Un altro elemento interessante che si sposa a meraviglia con il contesto naturale è l’interprete della guida georgiana Dato (Bidzina Gujabidze, attore per caso ma scalatore vero) il quale sa trasmettere la giusta dose di ambiguità e mistero da trascendere nel thriller.

Con pochi dialoghi e situazioni ridotte al minimo la Loktev (al suo secondo lungometraggio di finzione) è riuscita a costruire un’opera che si fa apprezzare, capace di indagare nel profondo umano disseminando con giusta dose i colpi di scena necessari a rompere le certezze prima sui protagonisti e poi nello spettatore.